Dossier Agenda 2030/ Guerra e ambiente: verso il Disarmo Climatico (34)

    *Questo dossier è realizzato in collaborazione con Acav ed è collegato all’Agenda 2030, Goal 13: Lotta contro il cambiamento climatico

    *In copertina Photo by Greg Rosenke on Unsplash

    Il collegamento tra guerra, conflitti, militarizzazione e ambiente e clima è sempre più evidente. In vista della tre giorni di analisi e approfondimento dedicata al Disarmo Climatico, che si svolgerà a Trento il 27, 28 e 29 ottobre, proponiamo in questo dossier una serie di spunti su tematiche su cui l’Atlante delle guerre è impegnata da anni. L’associazione 46°Parallelo è infatti tra i promotori dell’evento che ha l’obiettivo quello di scattare un’istantanea sulle minacce legate al cambiamento climatico, sempre più concrete e quotidiane, ma soprattutto ha il compito di parlare di possibili soluzioni.

    Di seguito tre delle infografiche realizzate insieme al Centro dei Documentazione Conflitti Ambientali apparse sull’ottava, nona e decima edizione dell’Atlante delle guerre.

    Quanto inquina la guerra

    Le emissioni militari sono state il grande assente dai dibattiti ufficiali della Conferenza delle Parti o COP26, tenutasi a Glasgow (Scozia) nel 2021. L’inquinamento causato dalle guerre attive oggi nel mondo, e da tutte quelle che le hanno precedute, è massiccio e intuibile a tutti. Eppure gli Stati che hanno partecipato alla Conferenza delle Parti – e che hanno il dovere di riportare i dati sull’inquinamento causato dalle loro missioni militari all’ufficio delle Nazioni Unite per il Cambiamento Climatico – presentano riguardo alle proprie azioni perlopiù dati confusi, al ribasso, e molto lontani dalla realtà. È questo il risultato della ricerca dell’Osservatorio sui Conflitti e l’Ambiente (Conflicts and Environment Observatory). L’Ong britannica, in collaborazione con le Università di Lancaster e Durham, ha creato il progetto Military Emissions Gap, che mappa e analizza proprio il divario tra i dati riportati all’Onu e quelli effettivi dell’inquinamento causato dalle guerre.

    Le emissioni causate dai conflitti sono infinitamente più di quelle che pensiamo, ha spiegato lo scienziato britannico Eoghan Darbyshire nella conferenza di presentazione del progetto tenutasi durante COP26. Non si tratta solo dello spostamento – già di per sé mastodontico – di militari, mezzi di trasporto, armi ed equipaggiamento. Il loro sostentamento (dai rifornimenti di cibo e carburanti, fino al riscaldamento dei loro stabilimenti) è solo la prima aggiunta ad una lista che continua a crescere. Basti pensare alle emissioni causate dalle esplosioni, dalle armi incendiarie (che spesso distruggono enormi aree di vegetazione perché diventano in breve tempo fuori controllo), e dalla strategia militare di distruzione dei raccolti per forzare le popolazioni locali alla resa. Oppure, si pensi alla pratica del gas flaring, l’incendio dei combustibili fossili, con il quale gli eserciti si assicurano che le risorse siano inutilizzabili affinché gruppi terroristici e opponenti non possano beneficiare economicamente dalla loro vendita. A tutto questo si aggiunge poi il costo ambientale delle missioni umanitarie, costosissime dal punto di vista di carburanti e risorse, soprattutto quando per aiutare le vittime bisogna fare i conti con la distruzione di infrastrutture come strade ed ospedali.

    Tutte emissioni che si sommano, ovviamente, ai costi e alle emissioni legate alla ricostruzione di Paesi e territori dilaniati dal conflitto. Insomma: se la spesa militare continua ad essere altissima e redditizia in Occidente (il 3.75% del prodotto interno lordo americano è legato all’acquisto di materiale bellico, per oltre 20mila miliardi di dollari), la spesa ambientale è devastante. Nei report delle Nazioni Unite, i governi riescono a cavarsela riportando una piccolissima parte delle proprie emissioni belliche. Nel diritto internazionale, non c’è traccia di una loro responsabilità per il costo ambientale di tutte le conseguenze della guerra.

    Nella società civile, gli attivisti continuano a protestare affinché il budget allocato alla spesa militare sia rivolto invece al raggiungere quella soglia di 1.5° celsius che ci salverà tutti. Ma, per ora, negli accordi dei governi del Mondo – e nella Conferenza delle Parti – di tutto questo non c’è traccia.

    Clima e conflitti sociali: alcuni casi in Africa e Sud America

    In Sud America

    Lo scioglimento dei ghiacciai delle Ande, che porta prima alluvioni, spesso accompagnate nell’immediato da frane e smottamenti, morte e devastazione, e poi siccità e scarsità d’acqua, mostrano in modo evidente il danno immediatamente percepibile dell’innalzamento delle temperature. E il conflitto ambientale, sociale e politico sul destino del più grande polmone verde del pianeta – non solo la foresta delle Amazzoni, ma anche il bacino dell’Orinoco, e tutti i fiumi che tengono in vita le immense selve e e praterie sudamericane – dà un’immagine chiara degli interessi in gioco, e di come vengano prese le decisioni che possono arrestare -o accelerare, come purtroppo sembra ora – questa catastrofica corsa verso l’autodistruzione.

    Si possono fare tre esempi di come la questione ambientale si leghi al conflitto sociale, anche se sono molti di più i casi che interessano il Continente. In Bolivia la contrazione dei ghiacciai minaccia l’approvvigionamento idrico da più di vent’anni. Già nel 1999, una serie di proteste, che divennero note come la “guerra dell’acqua di Cochabamba”, portò il governo, durante la disastrosa presidenza dell’ex dittatore Hugo Banzer, a revocare la progettata privatizzazione delle acque della città. Quasi 20 anni dopo, la Bolivia continua ad affrontare problemi di approvvigionamento idrico. Nel 2016, il paese ha sofferto la sua peggiore siccità in 25 anni. Le carenze di acqua hanno interessato 125mila famiglie e 283mila ettari di agricoltura e hanno portato alla dichiarazione di uno stato di emergenza. E l’anno dopo, la capitale, La Paz, ha subito un’ulteriore siccità storica.

    Il secondo caso è quello del Brasile del presidente Jair Bolsonaro. Attaccando quella che considera una retorica elitista, e facendo appello allo stato di necessità causato dalla crisi economica, ha chiaramente definito l’Amazzonia una risorsa e, nell’annunciare una serie di misure che tolgano di mezzo ogni ostacolo al suo sfruttamento, aveva subito dopo il suo insediamento dichiarato cosa volesse fare di chi vi abita da sempre: “integrarli” alla società, ovvero espellerli dal loro habitat naturale e deportarli. Legalizzando e sistematizzando quelle attività – disboscamento, estrazione dell’oro dai fiumi con mezzi chimici inquinanti – che fino a qualche anno fa avvenivano, ma in modo illegale ed erano spesso denunciate dai leader indigeni.

    Un altro conflitto è quello che coinvolge l’impero Benetton in Cile e in Argentina e le comunità native Mapuche. La contrapposizione fra agricoltori poveri e nativi è dunque da collegarsi anche al montante populismo che sfrutta la disperazione e lo stato di necessità, promettendo benessere in cambio dell’abbandono di ogni senso di solidarietà e di ogni senso di lungimiranza.

    In Africa

    L’Africa è uno dei continenti più minacciati dagli effetti dei cambiamenti climatici globali. Disastri ambientali, siccità, inondazioni portano a migrazioni forzate, peggioramento dei conflitti in corso, inferiori rese in agricoltura e conseguente aumento della malnutrizione e della fame. Molti sono studi che analizzano la situazione africana, oggi e in prospettiva.

    Il cambiamento climatico affama il continente Africano. Dei 257milioni di persone che soffrono la fame in Africa (un africano su 5), ben 237milioni vivono nella Regione sub-sahariana, mentre gli altri 20 in quella settentrionale. Le condizioni climatiche avverse hanno portato a un calo della produzione agricola e all’aumento vertiginoso dei prezzi alimentari. Sull’agricoltura incide non poco il cambiamento climatico: precipitazioni ridotte e aumento delle temperature influenzano negativamente le rese delle colture alimentari. I cambiamenti nelle precipitazioni e le temperature hanno un impatto negativo sui rendimenti del raccolto nell’Africa subsahariana. Questa penuria ha scatenato migrazione transfrontaliera e conflitti intra-regionali, provocando instabilità politica in vari Stati. In generale, l’insicurezza alimentare ha peggiorato le già difficili situazioni dei Paesi colpiti da conflitti.

    Secondo uno studio pubblicato nel novembre 2018 dalla società di consulenza britannica Verisk Maplecroft, due terzi delle città africane da qui al 2035 potrebbero essere minacciate dagli effetti dei cambiamenti climatici. Il rapporto esamina due fattori: le proiezioni demografiche e i dati economici. In questo senso gli agglomerati urbani africani risultano essere i più vulnerabili: aree molto densamente popolate stanno già vivendo grandi difficoltà nella fornitura di acqua potabile. In totale, otto città africane sono tra le dieci più a rischio nel mondo: tra queste Abuja, Addis Abeba, Dar es Salaam, Lagos, Luanda, Kampala e Kinshasa.

    La questione idrica è quindi centrale in Africa. Nel Continente si sta vivendo da anni la diminuzione delle precipitazioni piovose in larghe parti del Sahel e dell’Africa Meridionale, e un aumento in varie zone dell’Africa Centrale. Negli ultimi 25 anni, il numero di catastrofi correlate ad eventi climatici, come inondazioni e siccità, è raddoppiato. In Africa si è registrato il tasso di mortalità derivante dalla siccità più elevato del Mondo. In conclusione, per dirla con le parole del numero uno dell’Onu, Antonio Guterres, perdere la sfida del cambiamento climatico “potrebbe essere un disastro per l’Africa”. Il Continente pagherebbe infatti il prezzo più alto di tutto il Pianeta, pur contribuendo pochissimo all’inquinamento globale.

    Chi fa cosa
    Guerra e clima: i casi di Mozambico, Nigeria e Yemen
    In Mozambico l’aumento delle tempeste tropicali e delle precipitazioni violente ha aumentato significativamente la vulnerabilità delle persone già colpite dal conflitto. Nuovamente vittime anche migliaia delle famiglie che erano già state sfollate dai Cicloni Idai e Kenneth nel 2019. Nel gennaio 2021 i forti venti, le inondazioni e il ciclone Eloise hanno danneggiato o distrutto i rifugi di oltre 8700 di queste famiglie sfollate, oltre a scuole e ospedali. Anche in Nigeria siccità e inondazioni hanno reso più vulnerabili le persone già sfollate a causa del conflitto nel Nord-est del Paese. La situazione è ulteriormente peggiorata nella prima metà del 2021, con circa 294mila nuovi spostamenti.

    In Yemen alla guerra si sono unite inondazioni e siccità, che hanno portato alla distruzione di rifugi e infrastrutture, hanno limitato ulteriormente l’accesso ai mercati e ai servizi di base e hanno facilitato la diffusione di malattie mortali. A metà aprile 2021, forti piogge e inondazioni hanno interessato diverse parti del Paese, colpendo 7mila persone. Tra queste il 75% erano sfollati interni. Nel Paese ci sono oltre 4milioni di sfollati interni. La stagione delle piogge ha portato nel 2021 pesanti precipitazioni, forti venti e inondazioni, in particolare alle zone costiere. Le inondazioni, inoltre, hanno bloccato le strade, impedendo la consegna di assistenza salvavita.

    Drammatica la situazione nel Corno d’Africa. A causa della mancanza di piogge in tre stagioni consecutive, quattro paesi della Regione stanno affrontando una delle peggiori siccità degli ultimi quarant’anni. Le Nazioni Unite hanno lanciato un appello per chiedere fondi immediati a sostegno della Regione che comprende Gibuti, Etiopia, Kenya e Somalia. “Siamo fuori tempo. Abbiamo urgente bisogno di soldi per salvare vite” ha detto il sottosegretario agli affari umanitari, Martin Griffiths, in una conferenza stampa a Ginevra, dopo una visita in Kenya. Al momento, i fondi richiesti ammontano a 46miliardi di dollari che serviranno a sostenere 303milioni di persone. Nel mese di aprile il Fondo centrale di risposta alle emergenze delle Nazioni Unite (Cerf) aveva stanziato 12milioni per rispondere alla siccità, mentre altri 17milioni di dollari sono stati stanziati dal Fondo umanitario dell’Etiopia.

    Focus 1
    Disarmo climatico, una definizione

    Per disarmo climatico si intende l’analisi e la decostruzione della connessione tra cambiamento climatico e strutture e sistemi militari, compresa la militarizzazione della risposta ai cambiamenti climatici e ai loro effetti ben visibili sia sui territori che sulle popolazioni.

    Per lavorare al disarmo climatico, la Rete Italiana Pace e Disarmo, fissa l’azione su tre direttrici: pretendere trasparenza dalle industrie militari che forniscano dati su impronta ecologica e armamenti; costruire campagne di patrocinio radicalmente trasformative in una logica di valutazione della messa a terra dei principi e degli obiettivi dell’Agenda 2030; costruire una narrativa rispetto al disarmo climatico, che contrasti la narrativa su crisi climatica e emergenza, posta dall’apparato militare e dal sistema capitalistico.

    Focus 2
    Sicurezza climatica: cos’è e perché è pericolosa

    La sicurezza climatica analizza l’impatto del cambiamento climatico sulla sicurezza. Prevede che gli eventi meteorologici estremi e l’instabilità climatica derivanti dall’aumento delle emissioni di gas serra causeranno perturbazioni anche ai sistemi economici, sociali e ambientali e quindi mineranno la sicurezza. Negli ultimi anni la spinta verso la sicurezza climatica che proviene dall’apparato militare e di sicurezza nazionale, in particolare delle nazioni più ricche, si è molto rafforzata. La sicurezza climatica esamina infatti le minacce dirette percepite alla sicurezza di una Nazione, come l’impatto sulle operazioni militari: ad esempio, l’innalzamento del livello del mare colpisce le basi militari o il caldo estremo impedisce le operazioni dell’esercito. E quelle indirette: come i cambiamenti climatici possono esacerbare le tensioni, i conflitti e le violenze esistenti che potrebbero riversarsi o sopraffare altre Nazioni.

    Uno dei rischi provocato dal cambiamento climatico è la militarizzazione. Nel saggio “The dangers of militarising the climate crisis” (I pericoli della militarizzazione della crisi climatica) del Transnational Institute (Tni), pubblicato nell’ottobre 2021 si elencano gli effetti determinati dalle strategie che forniscono una soluzione militare alle conseguenze del cambiamento climatico. Il saggio sottolinea il ruolo dei militari nel causare la crisi climatica, i pericoli insiti nel fornire soluzioni militari agli impatti climatici, gli interessi aziendali che ne traggono profitto, l’impatto sui più vulnerabili e le proposte alternative per la “sicurezza”.

    La decisione di concentrarsi su soluzioni militari alla migrazione piuttosto che su soluzioni strutturali ha portato, ad esempio, a un massiccio aumento dei finanziamenti e alla militarizzazione dei confini in tutto il Mondo, in previsione di un enorme aumento della migrazione indotta dal clima. Un esempio è la spesa per le frontiere e la migrazione degli Stati Uniti che è passata da 9,2miliardi di dollari a 26miliardi di dollari tra il 2003 e il 2021. Frontex, l’agenzia della guardia di frontiera dell’Ue, ha visto aumentare il suo budget da 5,2milioni di euro nel 2005 a 460milioni di euro nel 2020 con 5,6miliardi di euro riservati all’agenzia tra 2021 e 2027.

    Nel 2021, per fare alcuni esempi, il presidente Biden ha dichiarato il cambiamento climatico una priorità per la sicurezza nazionale, la Nato ha elaborato un piano d’azione sul clima e la sicurezza e il il Regno Unito ha dichiarato che si stava muovendo verso un sistema di “difesa preparata al clima”.

    Secondo gli osservatori inquadrare la crisi climatica come un problema di sicurezza è problematico perché va a rafforzare un approccio militarizzato al cambiamento climatico che aggraverà le ingiustizie per le persone più colpite dalla crisi in corso. Sei sono i pericoli rilevati dal Transnational Institute (Tni): oscura o distoglie l’attenzione dalle cause del cambiamento climatico, bloccando il necessario cambiamento allo status quo ingiusto, rafforza un apparato militare e di sicurezza in forte espansione, scarica la responsabilità della crisi climatica sulle vittime del cambiamento climatico, definendole “rischi” o “minacce” e sugli attivisti per il clima, rafforza gli interessi aziendali, crea insicurezza e minaccia gli altri metodi di affrontare gli impatti climatici.

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