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Dossier Agenda 2030/ La guerra del greggio (12)

Questo dossier fa parte degli approfondimenti dedicati all’Agenda 2030 e analizza il target 7: Energia pulita e accessibile.

a cura di Alice Pistolesi

Il petrolio continua ad essere risorsa fondamentale per l’andamento delle economie occidentali e non. Da qui la sua importanza strategica che, nonostante i tentativi di superare la dipendenza dall’oro nero, non si è mai placata.

In questo dossier analizziamo brevemente chi nel Pianeta dispone di riserve petrolifere e chi invece consuma più greggio. Gli approfondimenti sono dedicati ad alcuni episodi verificatisi nel 2019 a danno di obiettivi petroliferi, sottolineando come questi si riflettano e provochino crisi, alimentino conflitti mondiali o come, nel caso dello Yemen, alimentino o esasperino una guerra che ha raso al suolo un intero Paese e condannato alla carestia centinaia di migliaia di persone.

Come si vede nei grafici sottostanti, che si trovano all’interno del report ‘BP Statistical Review of World Energy’, tutti i Paesi continuano ad essere dipendenti dal greggio, che risente delle crisi internazionali per determinare il proprio prezzo.


La guerra in Yemen e il petrolio

Il bombardamento di due impianti di Saudi Aramco nel settembre 2019 ha costretto l’Arabia Saudita a dimezzare nei giorni immediatamente successivi la produzione di petrolio per volumi che, secondo indiscrezioni, sono pari al 5% dei consumi mondiali. Il danno è stato paragonato a quello provocato dall’incendio dei pozzi del Kuwait da parte delle truppe irachene di Saddam Hussein nel 1991. Fortunatamente questa volta le fiamme sono state spente in poche ore.

Il bombardamento è stato effettuato con dieci droni ed è stato rivendicato dagli Houthi, formazione che dal 2015 combatte in Yemen contro una coalizione militare guidata dai saudititi. Il portavoce degli Houthi (formazione sostenuta in Yemen dall’Iran) ha rivendicato il bombardamento con un messaggio televisivo e ha minacciato l’Arabia Saudita di ulteriori azioni contro il Paese se i sauditi non fermeranno le operazioni in Yemen.

Colpiti il secondo giacimento di petrolio del Paese, Khurais, in grado di produrre 1,5 milioni di barili al giorno, e il maxi-impianto di Abqaiq, nella Provincia orientale dell’Arabia Saudita, a 60 chilometri dal quartier generale di Aramco a Dhahran. Quest’ultimo era già preso di mira dai terroristi di Al Qaida con due autobombe a febbraio 2006.

Gli attacchi hanno evidenziato la vulnerabilità del più grande impianto di stabilizzazione al mondo dove il greggio saudita viene desulfurizzato prima di essere inviato alle raffinerie e all’esportazione, attraverso il terminal petrolifero di Ras Tanura, di Jubail e Yambu sul Mar Rosso. Sulla sua importanza strategica e vulnerabilità si era già discusso in occasione degli attacchi alle petroliere nello stretto di Hormuz (vedi approfondimento 2).

Quello contro Abqaiq e Khurais non è il primo attacco contro obiettivi petroliferi sauditi: a maggio 2019 erano state prese di mira due stazioni di pompaggio dell’oleodotto East West e in agosto dello stesso anno l’obiettivo era stato il giacimento Shaybah. In entrambi i casi, sempre rivendicati dagli Houthi, non c’erano state conseguenze sulla produzione petrolifera.

Lo Stretto di Hormuz

Lo Stretto di Hormuz è il più importante passaggio per l’export del petrolio a livello mondiale. Nel canale, che mette in comunicazione il Golfo Persico e l’Oceano Indiano, transita gran parte del greggio esportato dai paesi produttori del Golfo e il gas naturale liquefatto estratto dal Qatar. Nel 2018, secondo l’Energy Information Administration (Eia), sono transitati 17,4 milioni di barili di greggio al giorno, ovvero circa un quinto della domanda mondiale di petrolio.

Gli attacchi alle petroliere nello stretto e la conseguente tensione tra Iran (che ha sempre respinto le accuse) e gli Stati Uniti, hanno avuto conseguenze anche sull’andamento dei prezzi del petrolio. Secondo il presidente della Agenzia Internazionale dell’Energia Fatih Birol, gli attacchi alle petroliere e il clima di scontro tra Washington e Teheran rappresentano una grave minaccia alla sicurezza energetica globale. Questo nonostante lo shale oil americano, il petrolio non convenzionale, che si è trasformato negli anni nello strumento che gli Usa utilizzano per controllare l’andamento dei prezzi.

Chi fa cosa
Opec e Opec Plus

L’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) è un’organizzazione intergovernativa permanente, creata alla Conferenza di Baghdad del settembre 1960, da Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela. A questi paesi si unirono successivamente il Qatar (1961), l’Indonesia (1962), la Libia (1962), gli Emirati Arabi Uniti (1967), l’Algeria (1969), la Nigeria (1971), l’Ecuador (1973), il Gabon (1975), l’Angola (2007), Guinea Equatoriale (2017) e Congo (2018). L’Ecuador ha sospeso l’adesione nel dicembre 1992, ma è rientrato nell’ottobre 2007. L’Indonesia ha sospeso l’adesione nel gennaio 2009 per rientrarvi nel 2016 e sospendere nuovamente l’adesione alla fine dello stesso anno. Il Gabon ha terminato la sua adesione nel gennaio 1995 ma è rientrato a far parte dell’Organizzazione nel luglio 2016. Il Qatar è invece uscito nel gennaio 2019. Al 2019, quindi, l’organizzazione conta un totale di 14 paesi membri.

L’obiettivo dell’Opec, come si legge nel sito ufficiale “è di coordinare e unificare le politiche petrolifere tra gli Stati membri, al fine di garantire prezzi equi e stabili per i produttori di petrolio, una fornitura efficiente, economica e regolare di petrolio alle nazioni consumatrici e un equo ritorno sul capitale a coloro che investono nel settore”.

Secondo le stime diffuse dalla stessa organizzazione, il 79,4% delle riserve petrolifere comprovate a livello mondiale si trova nei paesi membri dell’Opec. La maggior parte delle riserve petrolifere in possesso dell’organizzazione, pari al 64,5%, si trova in Medio Oriente. Secondo l’organizzazione, quindi, le riserve petrolifere dell’Opec ammontano a 1.189,80 miliardi di barili.

Alla fine del 2016 è nato poi l‘Opec Plus o ‘Opec/Non-Opec Joint Ministerial Monitoring Committee (Jmmc)’. L’obiettivo dichiarato è ancora una volta quello della stabilizzazione dei prezzi ma coinvolge quasi il quasi doppio di paesi Opec. Jmmc comprende infatti i 14 membri dell’Opec e i produttori Non-Opec: Azerbaijan, Bahrein, Brunei, Kazakhstan, Malaysia, Messico, Oman, Russia, Sudan, Sud Sudan. Opec Plus produce quindi il 71% del petrolio mondiale.

Focus 1
Chi consuma più greggio

Secondo i dati forniti dalla Eia (US Energy Information Administration), già dal 2013 la Repubblica Popolare Cinese era diventata il primo importatore netto di petrolio e, con il calo della produzione interna, ha raggiunto il primato mondiale. La Cina importa greggio per il 56% da Paesi produttori Opec (in calo rispetto agli anni precedenti) dalla Russia per il 14% e dal Brasile per il 5%. Mosca nel 2017 si è infatti confermato il primo fornitore di Pechino. Al secondo posto tra i consumatori di greggio troviamo poi gli Stati Uniti.

Secondo l’Eia tra i primi venti Paesi consumatori ci sono poi India, Giappone, Russia, Arabia Saudita, Brasile, Sud Corea, Germania, Canada, Messico, Iran, Francia, Indonesia, Regno Unito, Singapore, Thailandia, Italia, Spagna e Australia.

Focus 2
Chi ha il petrolio

I tre Paesi considerati i maggiori produttori di petrolio sono l’Arabia Saudita, la Russia e gli Stati Uniti. Definire quale dei tre Paesi produca di più non è semplice dal momento che la produzione dipende dagli anni. La loro produzione, comunque, si aggira tra i dodici e i quindici milioni di barili al giorno.

Il petrolio estratto da questi tre Paesi viene utilizzato per esigenze energetiche interne, ma anche per l’esportazione. Tra i maggiori esportatori c’è l’Arabia Saudita mentre Stati Uniti e Russia fanno uso del petrolio soprattutto per esigenze nazionali. Tra i Paesi produttori ed esportatori ci sono poi Iran, Iraq, Cina, Canada, Emirati Arabi Uniti, Messico, Kuwait, Iraq e Venezuela.

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